Tarcisio Lancioni

Détruire la peinture, lire la peinture

Tarcisio Lancioni

 

Vorrei proporre solo una piccola glossa al Louis Marin lettore d’immagini, con riferimento particolare al Louis Marin di Détruire la peinture, cominciando con la constatazione che pur senza elaborare una teoria semiotica esplicita della rappresentazione pittorica, Louis Marin è riuscito a descrivere il funzionamento semiotico di numerosi oggetti pittorici considerandoli ognuno come frutto di un’organizzazione autonoma, di cui cercare di volta in volta il codice, l’insieme di regole significanti che governa la connessione dei suoi significanti manifestati con i significati immanenti, senza mai cercare di elaborare, almeno a quanto mi risulta, un sistema comune a gruppi di opere o alla pittura in generale.

Louis Marin sembra dunque aver seguito l’unico modo di procedere consentito al semiologo dell’immagine nel quadro di una semiologia saussuriana del segno quale quella presentata e discussa da Émile Benveniste nel saggio Sémiologie de la langue. Ricordiamo che in questo saggio Benveniste sostiene che i metodi e gli strumenti dell’analisi linguistica non sono esportabili allo studio di sistemi semiotici diversi, realizzati in sostanze dell’espressione diversa, quali la musica o la pittura, poiché questi altri sistemi non sarebbero costituiti da un insieme finito di segni, cioè di unità autonomamente significanti, ma da un insieme virtualmente infinito di elementi suscettibili di essere investiti di senso di volta in volta in modo diverso. In altri termini, questi sistemi, secondo Benveniste, sarebbero composti solo di unità occorrenza non riferibili ad alcun tipo prestabilito, ognuna delle quali, al limite, potrebbe costituire solo il tipo di se stessa.

Se questo fosse vero in assoluto, sarebbe praticamente impossibile interpretare gli oggetti esemplificativi di questi sistemi, che sarebbero paradossali atti di parole senza alcuna langue, e anzi, a rigore diverrebbe impossibile continuare a parlare di sistemi. Per esemplificare il paradosso possiamo ricorrere alla classificazione dei livelli di messaggio proposta da Douglas R. Hofstadter in Gödel, Escher, Bach. Un’eterna ghirlanda brillante… [1] In questa prospettiva si potrebbe affermare che gli oggetti pittorici o musicali, se effettivamente generati senza alcun sistema di riferimento, veicolano soltanto un messaggio quadro, ma non un messaggio esterno, né un messaggio interno. Dove il messaggio quadro sarebbe semplicemente ciò che ci informa che un messaggio è un messaggio, il messaggio esterno sarebbe la chiave di accesso al significato vero e proprio del messaggio, e infine il messaggio interno, sempre per Hofstadter, sarebbe costituito dal significato vero e proprio. Per chiarire l’articolazione di questi tre livelli Hofstadter fa l’esempio del ritrovamento di una bottiglia con all’interno un foglio arrotolato. Il semplice ritrovamento costituirebbe il messaggio quadro perché la nostra cultura, la nostra competenza narrativa e romanzesca, ci direbbe che probabilmente in un foglio arrotolato all’interno di una bottiglia c’è un qualche significato da cercare. Una volta aperto il foglio e scopertevi tracce di scrittura bisognerà capire in che lingua il messaggio è scritto, e la comprensione della lingua, del sistema in cui il testo è stato redatto, costituirebbe il messaggio esterno, e infine il messaggio interno sarebbe dato dalla decodifica vera e propria del messaggio. Con i dipinti, portando alle estreme conseguenze le osservazioni di Benveniste, disporremmo solo di messaggi quadro : la nostra cultura ci invita a supporre che un dipinto sia dotato di senso ma noi non avremmo alcuna possibilità di addentrarci oltre, o al limite non ci resterebbe che confidare su una naturalistica, quanto ingenua, convinzione per cui il dipinto si limiterebbe a riflettere, senza alcuna codificazione, il mondo naturale stesso, non necessitando di alcunché per la sua corretta e completa comprensione.

Evidentemente, Marin non accetta questa conseguenze, pur accettando, con Benveniste, la non esportabilità del modello linguistico a semiotiche diverse, e si impegna nella ricerca di quei “messaggi esterni” che dovrebbero poter rendere leggibili i testi pittorici. In questa ricerca, Marin sembra seguire due vie complementari : una in parte, ma solo in parte, riconducibile all’iconologia panofskiana e rivolta all’esterno del dipinto, verso i documenti, le forme del sapere, le teorie del segno e della rappresentazione coeve all’opera pittorica analizzata, che possano fornire indicazioni circa l’“idioma” in cui l’opera stessa parla ; l’altra è invece indirizzata all’interno del dipinto, alla sua organizzazione formale, ed è su questa che ci soffermeremo.

Secondo Marin una rappresentazione pittorica, o almeno una rappresentazione pittorica dell’età classica, di cui si è occupato quasi esclusivamente, oltre a parlare di ciò che rappresenta, oggetto o evento, ci parla anche di se stessa dicendoci che è una rappresentazione e in che modo rappresenta ciò che rappresenta. Una rappresentazione pittorica, dunque, è anche autoreferenziale, ma per evitare che con eccessivo narcisismo l’opera finisca con il parlare esclusivamente di se stessa, come accade nello Chef d’œuvre inconnu di Balzac o in tanta pittura contemporanea, la rappresentazione classica, profondamente vocata alla “verità” di quanto rappresenta, è costretta a cancellare, per quanto possibile, le tracce di questa autoreferenzialità o, con espressione cara a Marin, a denegarle.

Dunque il metodo di Marin, o meglio la metodicità più che un vero e proprio “metodo”, mai esplicitamente formulato, sembra consistere nella costante articolazione di tre passi successivi : ipotesi di autoreferenzialità dell’opera, constatazione della sua denegazione, ricerca delle tracce sfuggite a questa cancellazione. Ricerca che prende sovente le mosse dalle marche ancora visibili della struttura enunciativa. A questo proposito, e riprendendo un tema già emerso in questi giorni, vorrei ricordare che per Marin il potere delle immagini, la loro efficacia semiotica, è strettamente connesso alla loro struttura enunciativa. Infatti, Marin, arricchendo l’idea diffusa che la lateralità del dipinto costituisca il livello dell’enunciato mentre la sua profondità, ovvero l’asse che congiunge punto di vista e punto di fuga nella prospettiva classica, costituisca il livello dell’enunciazione, e riprendendo un’idea espressa da Merleau-Ponty nella Fenomenologia della percezione, sostiene che la profondità non è altro che una lateralità ruotata di novanta gradi, essendo la lateralità l’unica dimensione spaziale effettivamente visibile, cosicché la percezione stessa della profondità implicherebbe che l’osservatore non si trovi installato solo nel punto di vista, dove lo incatenavano Alberti e Brunelleschi, ma che si trovi anche, e nello stesso tempo, ruotato di novanta gradi, e che quindi il commentator, su cui si è incentrato un intervento di ieri, non sia un qualunque narratore interno, ma sia l’osservatore stesso che oltre a essere l’ “io-qui-ora” di fronte al quadro sarebbe anche allo stesso tempo l’ “egli-lì-allora” installato all’interno del testo, attante dell’enunciato oltre che dell’enunciazione, sorta di enunciatario enunciato responsabile di gran parte della forza patemica dell’immagine, della sua efficacia. Così l’enunciatario del testo pittorico classico si trova ad essere inglobato nel dipinto stesso per effetto della costruzione enunciativa.

Questo problema dell’autoreferenzialità denegata che per Marin costituisce uno dei nodi cruciali della rappresentazione pittorica classica, non è rilevante, in ambito semiotico, solo per Marin ma anche, ad esempio, per la semiotica connotativa hjelmsleviana e per la poetica jakobsoniana. A questo proposito vorremmo osservare, banalmente, che qualsiasi testo, quale che sia il sistema semiotico su cui poggia e a dispetto di ogni presunta trasparenza o grado zero che, come ci insegna Nelson Goodman [2], sono solo effetto dell’assuefazione all’uso, non può non essere autoreferenziale, nel senso che non può non informarci circa il sistema semiotico che lo struttura : in che lingua, mezzo, tono, stile, ecc. ovvero quali sono i “fatti di connotazione”, come direbbe Hjelmslev, che lo concernono. Accade però che spesso tali connotazioni tendano a passare inosservate, come accade ogniqualvolta non abbiamo alcuna necessità di scoprire qual è la semiotica di riferimento che, come nella conversazione quotidiana tende ad annullarsi presentificandoci i contenuti in perfetta, o quasi, trasparenza ; tendono cioè a essere solo “connotate”, questa volta nel senso husserliano del termine, che chiama connotati gli stati noematici che pur presenti possono passare inosservati non essendo intenzionati direttamente. Ma non potranno passare inosservati quando un testo, per narcisismo o per necessità, tende a ridurre la propria trasparenza, a divenire opaco per richiamare l’attenzione su se stesso e sulla propria organizzazione interna, ovvero, con Jakobson, quando comincia a venir sottolineata la “poeticità” del testo. Il lavoro di Marin si configura così, spesso, come un attento lavoro di decostruzione della trasparenza apparente della rappresentazione pittorica moderna, volta a mostrare come la sua “naturalità” sia in realtà il frutto di una duplice strategia che mira prima a costruire, con perizia di artifici, specie enunciazionali, un effetto di “verità” per poi cancellare le tracce di questa perizia costruttiva. Decostruzione che permette a Marin di riscoprire le tracce sfuggite, inevitabilmente, al lavoro di occultamento, e che sembrano formare un velo opacizzante sulla superficie del dipinto. Ma se questo effetto di opacità non è dovuto che all’emergere in superficie del sistema soggiacente o, come direbbe Jakobson, alla proiezione del paradigmatico sul sintagmatico, ben lungi dall’essere fonte di ineffabilità e di inintelligibilità, e oltre a segnalare la poeticità del testo, l’opacità semiotica si rivela essere proprio ciò che consente la stessa leggibilità del testo, la condizione necessaria di leggibilità, in particolare, di tutti quei testi che non sono strutturati sulla base di un sistema semiotico il cui piano espressivo è costituito da un insieme finito di tipi replicabili, come quello linguistico, e che ogni volta sono costretti a “rifare” il sistema, come la pittura secondo Benveniste, ovvero di tutti quegli oggetti semiotici che, come direbbe Eco, si basano su una istituzione di codice. Dunque, contro ogni estetica idealistico-crociana, Marin ci ha insegnato, anche, che il testo opaco può essere il testo leggibile per eccellenza in quanto la sua opacità, negando il carattere naturalistico della rappresentazione, rivela le tracce del sistema immanente su cui poggia e ne permette la ricostruzione, anche se si tratta di un sistema singolare, occasionale, non replicabile, rivelandoci i segreti della lingua in cui è scritto, della semiotica immanente che lo struttura.

Università degli Studi di Siena
Dipartimento di Scienze della Comunicazione

Communication à la Tavola rotonda, « A partire dai lavori di Louis Marin/À partir des travaux de Louis Marin », organizzata dal Centro di Semiotica e di Linguistica, Urbino, 16-17 Luglio 1993, coordinata da Paolo Fabbri e Omar Calabrese.

Notes

[1] Douglas R. Hofstadter, Gödel, Escher, Bach, un’eterna ghirlanda brillante : una fuga metaforica su menti e macchine nello spirito di Lewis Carroll. Milano, Adelphi, 2001, 7e ed.

[2] Nelson Goodman, Languages of art : an approach to a theory of symbols. Indianapolis, Bobbs-Merrill [1968].