Omar Calabrese

Teoria “semiotica” dell’arte di Louis Marin

Il gioco dei ruoli prevedeva che, Paolo [Fabbri] sviluppasse un’introduzione teorica generale mentre a me spettava il compito di affrontare la questione “arte”, naturalmente sempre dal punto di vista della semiotica, vista la sede in cui ci troviamo. Con questo vorrei sottolineare che né Paolo né io intendiamo ridurre la figura di Marin a quella di un semiologo, perché non lo era affatto e anzi portava avanti tutta una serie di altri interessi. Vogliamo piuttosto specificare gli aspetti che sono stati importanti per alcuni tra i suoi compagni di strada, in particolare per coloro che frequentano tutti gli anni il Centro di semiotica di Urbino.

Ho preparato un piccolo schema di introduzione, che si sviluppa in quattro punti, sul rapporto tra Marin e la teoria “semiotica” dell’arte. Quatro punti che assumono un’importanza fondamentale anche per coloro che se ne sono occupati in seguito. Il primo concetto lo chiamerò di traduzione.

Fin dagli anni 1970, a partire dal famoso numero della rivista Communication dedicato a questo tema, Marin si è molto interessato al rapporto, quasi sempre decisivo, tra varie sostanze dell’espressione. Per fare un esempio, quando noi analizziamo un qualsiasi testo utilizziamo un linguaggio verbale costruito secondo un certo sistema, secondo certi schemi di applicazione e così via, ma li applichiamo a qualcosa che, dal punto di vista della sostanza dell’espressione, è estremamente diverso. Ora, che cosa può dirci l’interpretazione attraverso il sistema della lingua verbale su una sostanza dell’espressione completamente diversa come, per esempio, la pittura ? Ecco, questa è stata una delle rifessioni più importanti che Marin ha sviluppato in quegli anni perché proprio in quel periodo, in modo quasi parallelo, stava nascendo una tendenza idealista secondo la quale “la parola ha delle possibilità analitiche nei confronti d’un testo qualsiasi estremamente limitate perché, per sua stessa natura, lascia sempre interpretazioni possibili che non sono espresse e resta dunque sempre un residuo, non c’è mai l’interpretazione fino in fondo”. Se considerate ciò che è successo in questi vent’anni, alla filosofia ermeneutica, vi accorgerete che, probabilmente proprio in quel momento, le discipline più teoriche all’interno delle scienze umane – tra le quali la semiotica –hanno perduto una battaglia dal punto di vista del “successo” verso l’esterno ; per fortuna non dal punto di vista del valore effettivo, ma l’hanno comunque perduta perché, proprio in quegli anni, si sono scatenate tutte le teorie di tipo decostruzionista.

L’idea di Marin era estremamente interessante perché consisteva nel dire che la lingua è una specie di mediatore di semioticità. È evidente che un’interpretazione fatta con il linguaggio verbale non dice tutto di un testo, ma quale interpretazione dice tutto di un testo ? Il problema riguarda piuttosto il criterio di pertinenza e il punto di vista che si assume rispetto a un testo. In un saggio bellissimo sulla Manna di Poussin, dove si riprendeva tutta una serie di verbalizzazioni – per esempio con i cataloghi dell’eredità, del passaggio di proprietà e con le parole scritte da Anthony Blunt per descrivere quest’opera, e così via – Marin ha voluto far vedere che, effettivamente, la lingua era un punto di mediazione, come un accentatore, poneva l’accento su alcune cose che rendeva pertinenti nel vedere. Ma, d’altra parte, era l’opera stessa a dare delle indicazioni su dove porre gli accenti, perché è questa stessa che dice dove mettere l’accento : non è possibile metterlo in modo arbitrario. Questo è stato molto importante per le discipline non semiotiche – qual è la storia dell’arte – perché ha rappresentato un punto di vista differente rispetto all’iconologia.

Quest’ultima, soprattutto a partire dell’ultimo Panofsky e in particolare nelle sue varianti italiane come Settis, si basava sull’idea di fondo che un opera figurativa possa essere ridotta a parola per il banalissimo motivo che essa parte dalla parola. C’è sempre un testo letterario che la precede e la motiva, perché il committente di un’opera, soprattutto dal Rinascimento in avanti, definisce attraverso un testo letterario la comanda di quello che vuole rappresentato. Da cui tutta un’iconologia che ha lavorato con il sistema dei parallelismi : da una parte c’è il testo letterario, dall’altra c’è la rappresentazione figurativa. In maniera molto meccanica, certi iconologi italiani lavorano alla ricerca esclusivamente dei testi scritti : per ritrovare i quadri vanno a guardare le biblioteche degli intellettuali o dei potenti. Ad esempio, Alessandro Conti, studioso longhiano di grande levatura ma assolutamente e rigidamente tradizionale, mi ha confidato con grande soddisfazione di aver scoperto, grazie a un documento, la presenza di Caravaggio a Siena. Ne aveva dedotto che se Caravaggio si trovava a Siena in quanto pittore, allora doveva aver dipinto qualcosa che noi non possediamo. Fin qui elementare logica deduttiva. Ma come si fa a ritrovare l’opera e attribuirla a Caravaggio ? Naturalmente si prende la lista delle famiglie nobili, dei potenti senesi, considerando che se avesse realizzato il dipinto per una chiesa importante il quadro sarebbe senz’altro conosciuto.

Si tratta allora di andare in tutte le biblioteche delle famiglie importanti a consultare che tipo di opere di rappresentazione e narrazione religiosa vi erano contenute e, qualora si trovi qualcosa che non era rappresentato nei cicli o nei quadri della città, è dunque possibile attribuirlo a Caravaggio. A questo punto vado a vedere quali quadri si trovano nelle chiese e, quando m’imbatto in quel soggetto, significa dunque che è di Caravaggio. L’idea è senza alcun dubbio audace, un po’ troppo audace probabilmente, perché certi soggetti, soprattutto in una certa epoca, erano trattati da molti pittori. Se trovo una Caduta di san Pietro, non può essere di Caravaggio solo perché la sua presenza in città è documentata. Mi pare troppo arrischiato e bizzarro come procedimento.

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Il secondo concetto fondamentale in Marin ci serve non tanto come variazione rispetto alla storia dell’arte, ma probabilmente rispetto alla storia dell’estetica : il concetto di limite. Per Marin, nell’analisi di un’opera d’arte in generale, d’un testo in generale, e in particolare delle opere pittoriche, il fatto che l’opera produca piacere a noi che l’esaminiamo non può non far pensare che abbia prodotto piacere anche a chi l’ha creata.

Questo concetto del piacere della creazione, che ha il suo specchio nel piacere della lettura, è decisamente importante perché, da questo punto di vista, Marin ha sempre guardato le opere come se costituissero una sfida. Altrimenti, che ragione c’è ? Ci sono gli artisti della ripetizione, ma si tratta di un’estetica non lo interessava, non vi trovava il piacere della pittura. Ma dall’altro lato, a partire da questo concetto di piacere, l’idea che un opera debba contenere una qualche sfida lanciata al proprio lettore da parte dell’artista, alla natura testuale del supporto, alla sostanza dell’espressione che si stia manipolando, costituisce una vera e propria attività estetica. Non si tratta della teoria dell’apparizione del genio, perché riguarda l’opera e non l’autore. Marin ha dedicato gran parte del suo lavoro proprio ad analizzare come le opere d’arte, figurative in particolare, costruissero quest’idea della sfida : sfida della rappresentazione, per esempio. Quante altre volte Marin ci ha parlato anche del problema di rappresentare l’irrapresentabile, l’invisibile. Per fare altri esempi, una sua idea ricorrente era quella di riflettere sulla rappresentazione, attraverso una sostanza dell’espressione che non possiede la linearità, la linearità del tempo. La possibilità di rappresentare, attraverso una sostanza dell’espressione, statica ma intemporale, il punto della temporalità dell’istante. Penso in particolare al libro su Caravaggio, Détruire la peinture, e alla Medusa che ci guarda lanciando l’urlo nello stesso momento in cui viene pietrificata. Penso al bellissimo saggio, il primo che ho letto di Marin, in cui, attraverso l’analisi di un cartone di Lebrun, esamina quali fossero le condizioni per costruire una pittura di storia. Mi pare che queste condizioni coincidessero con il fatto di segnalare, attraverso i meccanismi dell’enunciazione, la contemporaneità della rappresentazione rispetto allo spettatore. C’è sempre, nell’opera, qualcuno che ci indica la direzione del nostro sguardo. Quindi, anche da questo punto di vista, si può dire che Marin ha portato il suo contributo, sub specie semiotica, alla storia dell’estetica, tanto che, insieme a tutti gli amici presenti qui e ai tanti altri assenti, costituisce un movimento all’interno della storia dell’estetica e della critica d’arte. Un movimento che afferma : l’arte si può esaminare in quanto costituente una teoria, ma esiste una teoria dell’arte che non è costituita dagli scritti dei teorici. Nelle università, per teoria dell’arte s’intende ancora tutto ciò che parte dai trattatisti fino agli interpreti odierni. La teoria dell’arte sarebbe dunque fatta da chi espone teorie sull’arte. Per Marin, al contrario, la teoria dell’arte è una teoria espressa con i mezzi dell’arte, perché se un’opera d’arte figurativa costituisce una sfida di rappresentazione, un tentativo di riflettere sui limiti delle sostanze dell’espressione, sui limiti naturali dei supporti utilizzati, e così via, allora l’arte è sempre teorica, anche se l’artista può non sapere di essere un teorico, anche se l’artista può non essere capace di spiegare la sua teoria. Faccio presente che, fra l’altro, anche in quelle occasioni in cui Marin si è occupato di arte contemporanea, egli ha lavorato sempre in questa direzione. Anche il fatto di lavorare sull’arte figurativa o su l’arte astratta era dunque trascurabile, perché queste categorie non sono importanti dal punto di vista teorico ; quello che conta è piuttosto la strutturazione dell’opera e il modo in cui questa riflette su se stessa e fa riflettere.

Il terzo concetto, già esposto da Paolo Fabbri, è l’efficacia. Aggiungerò solo alcune osservazioni che Marin aveva sviluppato sulla natura efficace delle opere d’arte figurative. Come sicuramente sapete, il problema dell’efficacia nasce in antropologia – l’efficacia simbolica in particolare, negli anni Quaranta, nei saggi di Lévi-Strauss di cui si è molto discusso – ma tale tema che consiste soprattutto nell’analizzare i modi è possibile “fare qualcosa” attraverso i segni. Ecco qui la questione della la performatività. Trovo tuttavia che nella lettura proposta da Marin di numerose opere d’arte ci sia anche qualcosa d’altro. In che modo e perché è necessario fare di un determinato oggetto qualcosa d’altro affinché sia efficace ? A questo proposito, vorrei rammentare un’occasione che è stata bellissima per tutti noi, perché partecipavamo insieme, ad Anghiari, ad un colloquio su Piero della Francesca. Ricordo bene che Marin fece – a mia memoria per l’unica volta, ma non sono certamente il suo miglior conoscitore – una relazione che fu accolta con grandi polemiche. Di solito, nonostante tutti lo trovassero difficile – ma giustamente difficile –non c’erano mai polemiche, perché il risultato era convincente. Vi ricorderete che in quell’occasione il suo intervento suscitò scandalo. Che cosa aveva detto nella sua relazione ? Aveva preso gli affreschi di San Francesco ad Arezzo, La storia della vera Croce, e messo in evidenza tutti casi in cui quella pittura così apparentemente storica, figurativa e realistica conteneva invece degli schemi astratti che facevano di quei dipinti qualcos’altro. Questo schema astratto era quello della croce, che appariva constantemente dove non lo si aspettava : quegli affreschi erano pieni di croci, ma per riconoscerle era necessario smettere di osservare bastava in maniera realistica, per passare a una visione schematica e strutturale. Derivava quindi da questo l’efficacia di tali affreschi in quella chiesa, in quella data epoca, probabilmente in un periodo di polemiche religiose. Ed era proprio per il fatto che fossero nascoste, o forse nascoste solo a chi non sa vedere, ma presenti a un livello differente rispetto alla rappresentazione immediata, che l’immagine diventava qualcos’altro : un insieme prolungatissimo di croci.

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In conclusione – anche in questo caso sarò breve perché gli interventi sul tema saranno certamente numerosi – mi soffermerò sul problema dell’uso che Marin ha fatto dell’enunciazione in pittura per costruire una teoria della narrazione. Per esempio, è stato il primo a far notare che le problematiche dell’enunciazione esistono anche al di fuori della lingua verbale, al livello deittico. Prima del saggio sulla Manna, e proprio sul cartone di Lebrun, Marin scrisse un testo in cui ricordava che la teoria dell’enunciazione era stata formulata, in maniera non troppo dissimile da Benveniste, in Leon Battista Alberti. Aveva trovato un passaggio di Alberti sull’espressione delle passioni e dei moti – “moti” intesi come movimenti e come passioni – in cui ritrovava una figura retorica dell’antichità, il commentateur, che Alberti non chiamava in questo modo ma che era comunque un mediatore communicativo che fa vedere l’opera, o almeno segnala che cosa vedere prima o come vederla, rivolgendosi al pubblico con il gesto e lo sguardo. È il personaggio di corte all’estrema sinistra nel cartone di Lebrun, ma è anche qualsiasi personnaggio che nella pittura figurativa del Quattrocento e del Cinquecento ha la funzione di segnalare la nostra postura ideale per leggere dal punto di vista semplicemente visivo e/o da un punto di vista interpretativo, un’opera d’arte. Per quanto riguarda la narrazione, vale la pena di aggiungere che Marin è stato fra i primi ad utilizzare le teorie formaliste della narrazione di Propp ed a farne un uso costante fino ai suoi ultimi testi. Propp è stato ampliamente utilizzato da Marin per mostrare che, se nella teoria formale della narrazione delle funzioni sembra necessaria una linearità della sostanza dell’espressione per poter procedere – poiché, in presenza di concatenazioni di funzioni la linearità pare indispensabile –, nella pittura e anche nelle immagini fisse a una sola inquadratura, possiamo riconoscere le concatenazioni di intere e, a volte complesse, sequenze narrative tramite una serie di implicazioni e deduzioni. Ricordo, a questo proposito, il caso dell’interpretazione dell’Annunciazione di Beato Angelico che Marin propose in un magnifico seminario organizzato da Daniel Arasse a Firenze nel 1987.

Gli spunti sono quindi numerosi e ne avrò tralasciati certamente molti, ma si tratta di spunti che, soprattutto per noi semiotici, sono stati fondamentali, perché su questi temi molti in questi ultimi anni hanno cominciato a lavorare, illudendosi anche di fare grandi scoperte che, invece, Marin aveva già fatto in alcuni momenti della sua vita.

Per finire, vorrei dunque unirmi a Paolo Fabbri nel dire che non siamo qui per parlare di Cesare [Louis] ma che siamo qui piuttosto per continuare a dialogare con lui. Vorrei inoltre pensare che questo convegno non è un omaggio a Louis, ma un’occasione per mettere a punto una serie di temi di ricerca da proseguire. Purtroppo questa volta non è potuto venire, ma ci sarà sicuramente in tutte le prossime occasioni.

Ce texte a été revu et corrigé par Francesco Zucconi. Qu’il soit ici chaleureusement remercié.

Communication à la Tavola rotonda, « A partire dai lavori di Louis Marin/À partir des travaux de Louis Marin », organizzata dal Centro di Semiotica e di Linguistica, Urbino, 16-17 Luglio 1993, coordinata da Paolo Fabbri e Omar Calabrese.